“A volte un sigaro è solo un sigaro, ma qualche volta è qualcos’altro” 

affermava Sigmund Freud, padre della psicoanalisi.



Questa espressione permise a Freud di sottolineare come, talvolta, un oggetto reale rappresenti il simbolo di vissuti interni e dinamiche inconsce.

In realtà, il sigaro era per Sigmund un piacevole vizio che lo accompagnava nella vita di tutti i giorni e da cui traeva, secondo necessità, sicurezza e serenità per affrontare dubbi ed incertezze sullo studio della psiche, non solo nell’ambiente accademico e clinico, ma anche nella vita quotidiana.

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IL SIGARO DI FREUD nasce dall’idea di un gruppo di psicologi, di accompagnare i lettori verso una genuina conoscenza della psicologia, raccontando, con onestà intellettuale ed un linguaggio fruibile, spaccati di vita quotidiana, facendo chiarezza su alcuni temi ambigui, sollevando sempre una riflessione critica sul lettore interessato e attento.

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Ultimi articoli

Il corpo, tra simbolo e parola

di Valentina Merola

Donna con mani incrociate, vista di schiena- Egon Schiele

Egon Schiele, pittore austriaco vissuto agli inizi del Novecento, racconta la poetica sottesa alle proprie opere attraverso la rappresentazione del corpo; dipinto come torbido, caotico, espressione di desiderio e di caducità della vita. Attraverso forme scomposte e incerte descrive il movimento dinamico di un corpo, contenitore di un’interiorità tormentata, la cui unica pretesa risulta essere l’esistere. Un’ esistenza senza spazio e senza tempo, le ambientazioni sfumano, l’età dei soggetti appare secondaria. Il corpo in questo senso sembra essere il veicolo di qualcosa di inespresso, che trova difficilmente rivelazione mediante la parola.  Ciò però non lo rende privo del significato più profondo che custodisce; nel coacervo di emozioni e sensazioni, che tali raffigurazioni suggestionano nello spettatore, domina il senso di ineffabilità circa un nucleo emotivo magmatico. La rappresentazione del corpo in tale paradigma artistico, può rimandare a quello che nel campo psicologico risulta essere un corpo trascurato all’interno delle relazioni primarie e che si fa, per questo, emblema di tutte le sue contraddizioni affettive.

Quando si parla di traumi evolutivi si ha a che fare con tutte quelle rotture avvenute all’interno delle esperienze di reciprocità, che non hanno permesso l’adeguato sviluppo dei sistemi di risposta emotiva: neurofisiologico, comportamentale-espressivo, cognitivo-esperienziale. Senza questi il soggetto si vede sfornito della possibilità di poter tradurre le emozioni in sentimenti, di poterle elaborare, modulare e verbalizzare con l’ambiente esterno. Si delinea così una disconnessione tra i livelli fisiologici e comportamentali e la capacità di usare le emozioni come sistemi motivazionali, dando luogo ad una disregolazione emotiva.

All’interno del contesto di accudimento primario, a cui ci si riferisce in termini di attaccamento, il trauma incide nella misura in cui il bambino, alla ricerca di aiuto e conforto di fronte alle esperienze emotivamente impattanti, trova nel caregiver risposte spaventate e spaventanti, che si traducono di fatto nell’indisponibilità alla modulazione e all’elaborazione di quanto da lui richiesto. In tale cornice, quest’ultimo, per fronteggiare gli stimoli conflittuali, potrà ricorrere abitualmente alla dissociazione patologica dove il contatto con la realtà si poggia sull’utilizzo di regolatori esterni, come ad esempio comportamenti compulsivi e addiction.

Ciò che non può essere adeguatamente simbolizzato rimane intrappolato nel corpo, senza essere verbalizzato, sfociando spesso nell’alessitimia, intesa come la difficoltà di elaborare ed individuare gli affetti.  Le emozioni e le sensazioni che non trovano voce, si manifestano quindi attraverso il corpo, che viene attaccato, fendendo la continuità tra passato e presente. Questo accade soprattutto in adolescenza, quando il corpo si trova ad affrontare tutte le trasformazioni puberali, che portano all’emergere del corpo sessuato e dove l’individuo deve confrontarsi necessariamente con le frontiere del tempo, rese manifeste dai mutamenti fisici. Il corpo, tempio di un’identità in definizione, risulta iperinvestito affettivamente e diventa bersaglio di agiti non pensati. La dissociazione diventa quindi la porta d’accesso a comportamenti a rischio, dove spingere il corpo al limite sembra essere l’unico modo per sentirsi. Autoinfliggersi dolore, attraverso i morsi della fame o i tagli sulla pelle, provoca sensazioni vive, che illudono l’adolescente di poter arginare o puntellare il vuoto che costantemente lo domina. In un regime autarchico l’adolescente sente di poter governare se stesso, accontentandosi di un corpo danneggiato come bussola, senza credere di avere necessità dell’Altro, perché visto e vissuto, sulla base delle rappresentazioni primarie, come persecutorio e irraggiungibile.

Dare senso a tali comportamenti regolatori e ripartire dalle sensazioni ricercate ed esperite, rappresenta il primo tassello all’interno di un intervento terapeutico allo scopo di potersi riappropriare delle emozioni considerate intollerabili, di modularle, pensarle e verbalizzarle in un contesto protetto e di cura. Il trattamento terapeutico in questo senso si fa carico del compito di integrare quelli che Wilma Bucci, nella sua Teoria del Codice Multiplo, ha definito come i tre canali che permettono la processazione delle informazioni e il successivo sviluppo di rappresentazioni interne. I tre livelli delineati sono: il modo subsimbolico non verbale, il modo simbolico non verbale ed il modo simbolico verbale.

Il primo riguarda tutti quegli stimoli (sentimenti, informazioni motori e sensoriali) che vengono processati in “parallelo”, il secondo si riferisce alle rappresentazioni mentali che non possono essere rese in parola e il terzo riguarda invece quei contenuti relativi al mondo interno che hanno la possibilità di essere comunicati all’ esterno.

Attraverso la connessione di queste tre dimensioni, nel trattamento terapeutico, si può permettere la simbolizzazione di esperienze dissociate subsimboliche così che il corpo possa vedersi scagionato dal duro ruolo di custodia e mezzo di espressione di dolori insostenibili, riappropriandosi della propria dimensione all’interno dell’esistere.

Per approfondire:

– Caretti V, Creparo G, Ragonese N, Schimmenti A. (2005) Disregolazione affettiva, trauma e dissociazione in un gruppo non clinico di adolescenti. Una prospettiva evolutiva. Infanzia e adolescenza vol. 4. n.3

-Lancini M, Cirillo L, Scodeggio T, Zanella T. (2020) L’adolescente, psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina Editore

– https://www.psychomedia.it/pm/answer/psychosoma/bucci.htm

Dott.ssa Valentina Merola

Psicologa a Roma

email: vale.merola@hotmail.it

L’altro lato della luna- Nei panni del caregiver

di Lisa Maccarone

“Nella mia mente sono rimaste una serie di immagini visive delle cose più strane e lontane dalla normalità terrestre. Ricordo il cielo nero come la pece, la desolazione della superficie lunare.”

BUZZ ALDRIN

A volte sono invisibili, altre volte sembrano invadenti e ansiosi e altre ancora sono rigorosi come genitori severi. Dietro una persona affetta da un patologia neurodegenerativa, c’ è quasi sempre un caregiver! Hanno molte sfaccettature, sono diversi l’uno dall’altro ma sono afflitti dallo stesso “alone”.

Andiamo con ordine!

Le persone sono caratterizzate da:

  • Una sfera sociale, legata ai rapporti con gli altri;
  • Una sfera professionale, legata al lavoro;
  • Una sfera economica;
  • Una sfera emotiva, legata alle proprie emozioni e alle emozioni degli altri.

I caregiver… ci siamo mai chiesti   quante rinunce devono fare per essere tali?

Stando agli ultimi dati diffusi, le malattie neurodegenerative, come le demenze sono in esponenziale aumento e con loro, quindi i caregiver coinvolti nelle relazioni di cura.

L’impegno esercitato diventa sempre maggiore  man mano che la malattia che coinvolge il nostro caro diventa sempre più ingravescente. Si mette in atto una vera e propria escalation che talvolta  funziona così :

  1. “forse ha bisogno di me, oggi passo a casa sua a  vedere… “
  2. “Devo andare a cucinare, non è più in grado di farlo da solo/a, è sempre più difficile conciliare tutti gli impegni!”
  3. “devo andarla ad aiutare ad alzarsi dal letto, potrebbe cadere, dovrò organizzarmi con il lavoro”
  4. “Dovrò trasferirmi da lui/lei oppure dovrà trasferirsi da me… non può più stare sol*!

Questo è il processo che ci indica la via che ogni caregiver intraprende quando diventa tale!

E dietro ci sono tante rinunce che crescono man mano che l’ impegno cresce. Talvolta il tempo da dedicare a sé stessi diminuisce sensibilmente, il tempo per gli hobby, per la propria famiglia e molte volte si vedono costretti anche ad abbandonare il lavoro al fine di prendersi cura del proprio caro fino alla fine, o fino a quando, allo stremo delle forze gli sarà possibile.

Inevitabilmente anche la condizione economica diventa dipendente dalla persona di cui ci si prende cura, causando la rinuncia di altro ancora. Diventa un circolo vizioso inarrestabile, nel quale non per ultimi vengono inclusi anche le emozioni riguardo sé e gli altri. Ciò avviene perché, a lungo ci si sente frustrati come individui e perché la percezione rispetto a sé stessi cambia; si devono cambiare punti di vista e obiettivi di vita, vivendo una vita che non abbiamo scelto ma che ci troviamo a subire.

Cosa si può fare per cercare di arginare tutto questo?

Creare una rete!

  • Una rete familiare: stabilendo flessibilmente dei turni da investire con la persona che ha la patologia;
  • Una rete sociale, attivando i servizi che si possono richiedere alle istituzioni come l’attivazione della 104 oppure l’accompagnamento o il servizio di l’assistenza domiciliare integrata (ADI);
  • Una rete con i professionisti: medico di base, neurologo, oss, fisioterapista, neuropsicologa…
  • Creare uno spazio proprio nel quale ci si può prendere cura di sé : psicologo, estetista, amicizie, hobby, sport…
  • Avere uno spazio condiviso tra caregiver e persona con patologia attraverso uno spazio piacevole per entrambi, ad esempio: per-therapy, teatro oppure un corso di  arte terapia.

Tutto ciò è importante perché rinnovare le proprie energie, quelle del caregiver, significa poterne investire di nuove nelle relazioni di cura, vivendo in modo più confortevole in una situazione non sempre semplice da gestire.

Per approfondimenti:

https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/pmi/2023/05/23/oltre-7-milioni-di-caregiver-38-cura-non-autosufficienti_126950b3-440f-4a82-99be-f171a1ea15f8.html

Psicologa clinica ed esperta in neuropsicologia clinica dell’adulto e dell’anziano

Si riceve a Chieti

Per appuntamento: 3285776623

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