Il viaggio. Sul bisogno di occhi nuovi

The false mirror – Magritte

Mattino, ore 06:45. La sveglia puntualmente suona, incurante di tutto. La suoneria più irritante di sempre. Lei l’ha scelta consapevolmente, se avesse scelto ad esempio un brano che amava, poi, pensa, avrebbe finito col detestarlo. Insomma: la sveglia suona. Lei si sveglia. Si massaggia gli occhi delicatamente con le mani, sperando di trasmettergli un po’ dell’entusiasmo, che a lei manca, per aprirsi. Lentamente le palpebre si sollevano ed ecco la solita scena: macchie di colore informi e sbiadite. La sua miopia è fortemente peggiorata dopo gli anni di studio. Questa sensazione l’aveva inizialmente spaventata: l’irrealtà del mondo a lei familiare aveva qualcosa di inquietante, le dava le vertigini. Con il passare del tempo però si era abituata, aveva addirittura trovato stranamente eccitante la sensazione di svegliarsi in un letto, che era il suo fin da bambina, ma che non riusciva più a riconoscere come tale affidandosi solamente alla sua vista. A tastoni mette le mani sul comodino e si rende conto che la sua adorata gatta ha ancora una volta lottato con i suoi occhiali durante la notte. Allunga il braccio ed ecco che dentro una pantofola li trova: i suoi ormai inseparabili compagni di vita. Li indossa, e la realtà intorno a lei torna ad assumere le rassicuranti forme e colori di sempre. Rassicuranti, sì. Perché ciò che con il tempo abbiamo osservato, abbiamo imparato a conoscere e a comprendere, ci trasmette un senso di stabilità, di prevedibilità, di familiarità che risulta rassicurante, che ha un effetto calmante. 

È come se la realtà avesse finalmente un confine, un contorno e noi potessimo quindi controllarla. Vedere con “i soliti” occhi ci dà questa sensazione calda e morbida, ci permette di ritagliarci un piccolo comodo pezzetto di mondo, nel quale abbiamo l’illusione di poter tenere la situazione sotto controllo.

Ma cosa succede se la nostra gatta intraprende con i nostri occhiali una lotta più agguerrita delle altre notti? Cosa, se i nostri occhiali si rompono? Cosa, se le nostre sicurezze si scheggiano? Se ci troviamo a guardare senza il filtro delle lenti, che a tutto danno un ordine, la nostra quotidianeità? Cosa accade se assecondiamo quella sensazione tanto vertiginosa quanto eccitante del guardare la nostra rassicurante e familiare vita senza più riconoscerla?

Questa è una sensazione simile a quella che si prova di ritorno da un viaggio.

Viaggiare significa andarsene, per tornare. Il viaggio ha un significato diverso per ciascuno di noi in ogni diverso momento della vita: si può partire per staccare per un po’ da una vita quotidiana nevrotica e richiestiva; si può partire per guardare dalla giusta distanza una determinata situazione che non sappiamo come affrontare; si può partire per conoscere o esplorare luoghi lontani ed esotici, per sentirci un po’ “esotici” anche noi; si può partire per conoscersi e conoscere i propri limiti, sfidando se stessi ad adattarsi temporaneamente a nuove condizioni; si può partire per premiarsi, celebrando il proprio traguardo investendo in un’esperienza, piuttosto che in un bene materiale.

Quando torniamo da un viaggio può capitare di sentirci strani, derealizzati, di non ricordare la strada da fare per arrivare da un punto all’altro della città, di percepire come troppo silenziosa o rumorosa l’atmosfera del proprio quartiere, di accorgerci per la prima volta del particolare odore della nostra casa, di pensare come quel quadro appeso in camera da letto proprio non ci piaccia, di non ricordare che il divano fosse proprio di quella tonalità di verde. 

Arrivare in un posto sconosciuto è un po’ come indossare occhiali scheggiati: ciò che ci circonda risulta irriconoscibile, nulla  richiama la comoda sensazione di familiarità, la possibilità di vedere la realtà circostante in maniera chiara ed ordinata e di poterla quindi controllare.

O forse è come indossare occhi nuovi, sensi nuovi: ogni stimolo risulta sconosciuto e quindi interessante, da scoprire, da capire, amplificato. Si richiede al nostro cervello un lavorìo attento e continuo per registrare minuziosamente tutte le informazioni provenienti dall’ambiente circostante. I colori, gli odori, i profumi, i rumori, i suoni, i sapori e le superfici sono irriconoscibili e fanno sì che i nostri canali percettivi si spalanchino, pronti a cogliere queste sensazioni mai sperimentate prima. Ci sentiamo vigili, presenti a noi stessi, recettivi. Ci sentiamo diversi, come risvegliati.

Andarsene significa quindi allontanarsi non soltanto dalla propria routine quotidiana, ma soprattutto dai panni che vestiamo in questa routine. Andare in un posto altro significa potersi liberare dagli schemi che ci siamo costruiti nel tempo e nei quali ci siamo poi incastrati, riconoscendoci e definendoci all’interno di un ruolo tanto chiaro e preciso quanto difficilmente modificabile, nel quale il mondo esterno, le altre persone, la società (che come noi teme e rifugge il non noto) tende a farci rimanere. Andarsene significa essere degli sconosciuti, degli stranieri, significa poter temporaneamente perdere i vecchi schemi, significa potersi temporaneamente perdere. Per ritrovarsi, mai uguali a ciò che si era prima. In sostanza, laddove nessuno sa chi siamo, possiamo scegliere di impersonare chi vogliamo. Possiamo, come un attore, sperimentarci vestendo i panni di chi vorremmo essere ma non abbiamo il coraggio di essere nella nostra vita quotidiana. Possiamo fare un tentativo, e scoprire che forse, proprio come la nostra amata gatta con i nostri occhiali, anche noi potremmo lottare con i nostri schemi e farli cadere a terra, riuscire finalmente a scheggiarli. E poi tornare, con occhi nuovi.

 “Quando si viaggia, si sperimenta in maniera molto più concreta l’atto della rinascita. Ci si trova dinanzi a situazioni del tutto nuove, il giorno trascorre più lentamente e, nella maggior parte dei casi, non si comprende la lingua che parlano gli altri. E’ proprio quello che accade a un bambino appena nato dal ventre materno. Con ciò si è costretti a dare molta più importanza alle cose che ti circondano, perché da esse dipende la sopravvivenza. Si comincia a essere più accessibili agli altri, perché gli altri ti possono aiutare nelle situazioni difficili. E si accoglie qualsiasi piccolo favore degli dei con grande gioia, come se si trattasse di un episodio da ricordare per il resto della vita. Nello stesso tempo, poiché tutte le cose risultano nuove, se ne scorge solo la bellezza, e ci si sente più felici di essere vivi”.

(Paulo Coelho)

Dott.ssa Giulia Radi

Riceve su appuntamento a Perugia
(+39) 3200185538
giulia.radi@hotmail.it

Per approfondire:

Smith ER, Mackie DM. Psicologia sociale

Guevara E (“Che”), 1992. I diari della motocicletta

Coelho P, 1987. Il cammino di Santiago

(poesia) Kavafis K, 1911. Itaca

(film) Scott R, 1991. Thelma & Louise

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