Donne e Cancro. In guerra con se stesse

Sorrow, Van Gogh

Lo sentii quasi subito. Tutto, era già partito: umori, dinamiche e pensieri. Detti e non – detti, piacevoli e spiacevoli. Gli elementi indicativi di un transfert già potente e pesante, c’erano tutti (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Nella stanza d’analisi – La svolta in un agìto” e “Relazioni terapeutiche – Riflessioni su un caso di buona separazione”). Mi vedevo già lì, intenta a percorrere un sentiero psichico che non sapevo ancora dove mi avrebbe condotto; ma, nonostante tutto, io c’ero, e non avevo alcuna intenzione di fuggire. Per certi versi, si presentò proprio come me l’ero figurata, Carla: a vederla così agghindata si faceva fatica a crederlo, eppure la paziente, splendida donna dagli occhi color nocciola, era prossima ai settanta. E glielo lessi subito sul volto quanto aveva vissuto: un’anima che la vita l’aveva divorata, attraversandola in ogni anfratto e tenendo il piede perennemente puntato sull’acceleratore. Che non si era mai fermata, e forse, neppure ascoltata. Un’anima, che facevi fatica a seguire lungo i discorsi che instancabilmente delineava, tante erano le “cose” e le persone di cui aveva amato circondarsi sino ad allora. Il fare sofisticato, un’intelligenza viva e pungente, eh quel sorriso dolcissimo anche se appena accennato. Ma di colpo, si faceva largo un’ombra, pronta ad incupirla dal di dentro sino a gelarne i densi racconti: quando era il buio a regnare su di lei, sembrava quasi assumere altre sembianze, Carla; l’espressione si faceva inquieta, a tratti interrogativa, ed il volto era talmente provato da condizionarne temporaneamente le fattezze, salvo poi restituirgliele intatte. Eccola lì – pensai anche quella volta – è nuovamente “tornata in sé”.

Quella che descrivo è solo una delle tante sensazioni che l’attenta osservazione di Carla costantemente mi lasciava: l’estraniarsi seppur per pochissimi, intensi istanti, dalla parte più gioiosa di sé per cedere il passo a quella più nera e inquietante, racchiudeva in breve ogni altro contrasto presente nella paziente. Un groviglio di luci ed ombre il suo, nel quale a tratti sembrava faticare a raccapezzarsi; un traffico di pensieri che stentava a dirigere nonostante la sua naturale e spiccata risolutezza: ogni antitesi, sembrava confluire in lei. Molto spesso mi ritrovavo a pensare che fosse parecchio con – fusa. La vita sembrava averle dato, ma anche tolto tanto. La sua suonava un po’ come una storia direttamente estratta da quel romanzo d’avventura che vorresti non avesse mai fine. Ma questo, solo a primo acchito: perché poi, guardando oltre gli orpelli da lei inseriti all’occorrenza forse anche per impressionarmi piacevolmente, ciò che emergeva implacabile era quella sua dimensione di lontana solitudine mista a un senso d’inquietudine altrettanto radicato.

Dentro e fuori da Carla, si è consumato a suo tempo uno fra i drammi forse peggiori della vita di ogni donna: aveva una massa tumorale, scoperta fortunatamente e per caso durante un massaggio snellente dalla sua fidata estetista, insospettita da quelle proporzioni capaci di comprimerle appieno un’ovaia. Ciò l’avrebbe vista poi costretta a ricorrere all’asportazione dell’utero e di entrambe le ovaie, cosa, questa, che le salvò la vita.

L’aver subìto un intervento fisicamente e psichicamente così devastante quale può essere un’isterectomia, le aveva lasciato addosso un complesso di sentimenti mai guardati e affrontati nel profondo con chi di competenza e coi quali evidentemente conviveva ormai da un tempo indefinito. Il suo era stato a lungo un corpo giovane e florido di cui andar decisamente fiera; un corpo invidiato, pulsante di vita e desiderio. Lo stesso corpo responsabile del più grave dei tradimenti: un tradimento che si faceva al contempo interno ed esterno, che le ricordava ogni giorno chi era ma che la rendeva anche estranea a se stessa. In cui convivevano vita e morte.

Cercando di addentrarci un po’ di più negli aspetti psichici connessi al tumore ovarico che inflisse la mia paziente e – più in generale – provando a dare senso al vissuto interno sperimentato dalle donne affette da condizioni oncologiche uguali e similari a questa, in cui la componente della femminilità è quella in ogni senso e primariamente investita, potremmo dire che tutti gli aspetti vitali sono surclassati da quelli più sterili e mortiferi: la donna, biologicamente predisposta ad accogliere e a generare vita, nella fattispecie qui descritta deve suo malgrado rinunciare a tutta la sua innata potenza generatrice: con una perdita come questa, così sconvolgente e distruttiva, sarà prima o poi chiamata a fare i conti (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Oncologia e sessualità femminile – Scoperchiare il vaso di Pandora” e “La malattia oncologica – Il male senza nome”).

Quel corpo, un tempo seduttivo e così profondamente ospitale e prolifico, subisce, causa l’isterectomia, una mutilazione profondissima, i cui tagli vanno evidentemente ben oltre il visibile, spingendosi fino ai meandri della psiche: ogni vitalità sino a prima associata al corpo femminile è qui vista sfiorire nel peggiore dei modi, quasi la donna fosse stata defraudata e privata di un tesoro unico e irripetibile un tempo solo suo e di netto barbaramente strappatole.

A tutto ciò si associa la complessa sensazione che l’inganno sia venuto da una parte – altra di Sé – non riconosciuta –  che dopo essersi fatta subdolamente e concretamente largo nel corpo della donna, ha allargato a macchia d’olio ogni suo confine, infiltrandosi senza più freno alcuno e producendo nient’altro che uno scenario di desertificazione e totale devastazione interna. Si evince qui la presenza inquietante del “doppio”, che convive stabilmente col e nel malato oncologico: un doppio, che è incarnato dalle cellule tumorali impazzite nella loro proliferazione maligna ed impegnate attivamente e costantemente a seminare guerre intestine.

Tipicamente, il vissuto profondamente persecutorio è rintracciabile nei pazienti affetti da cancro, che portano con sé la sensazione duplice di estraneità e familiarità della malattia, percepita come dilagante e metastatizzante (persecutore interno), cui si aggiungono i vissuti di destrutturazione, depersonalizzazione e derealizzazione, causa anch’essi dell’impatto delle angosce di morte, suscitate dall’esperienza del cancro.

Ma la condizione psichica del paziente oncologico si fa ancor più delicata allorchè la potenza di queste fantasie si fa troppo angosciante e distruttiva, al punto che la mente non le sosterrebbe: pertanto, per fronteggiare simili contenuti, la psiche – costantemente esposta al rischio di trasformare i primi in vere e proprie angosce psicotiche – trova nel meccanismo del disconoscimento la soluzione ottimale per “reggere” senza tuttavia impazzire. Un’oscillazione perversa e costante fra comportamenti diametralmente opposti, che mobilitano di volta in volta assetti difensivi altrettanto doppi e variabili.

Disconoscendo la realtà della malattia, è un po’ come se il paziente oncologico “sapesse e non sapesse” ad un tempo, operando con ciò su di sé un annebbiamento più o meno parziale del grado di consapevolezza della malattia oncologica e funzionando ad un livello psichico decisamente più regredito del precedente.

Una difesa, anche questa, che per quanto estrema, è spesso vista come la via che permette l’unica forma di sopravvivenza psichica possibile (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “I meccanismi di difesa – Quei garanti della sopravvivenza”).

Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti

Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673

cl.marafioti@hotmail.com

Per approfondire:

Bria P., Nesci D. A., Pasnau R. O., La Psichiatria di consultazione e collegamento: Teoria, Tecnica, Ricerca, Formazion, Alpes Edizioni, Roma, 2009

Fornari F., Affetti e cancro, Raffaello Cortina, Milano, 1985

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