Frida Kahlo. Riflessioni sulla resilienza

Pomeriggio assolato a Milano, i raggi filtrano e, seppur flebili, si affacciano timidi e tentano di riscaldare l’enorme fila di persone che aspettano fuori. Siamo al Mudec; in una fila rumorosamente allegra di almeno 90 minuti per vedere la tanto celebrata mostra di Frida Kahlo.

Si lei, sta tenendo in fila centinaia di persone tutti i fine settimana; richiamate da quel fascino intrigante e enigmatico che avvolge la figura dell’artista e delle sue opere (per un maggior approfondimento si rimanda all’articolo “Arte al femminile e trauma – Frida, Camille e Artemisia”)..

Forse vi starete chiedendo perché si stia parlando di Frida in una rivista dedicata alla psicopatologia; la risposta, probabilmente risiede nella simbologia inafferrabile che emanano le sue opere intimamente legata alla sua storia, alla sua vita. Questo connubio, riporta inevitabilmente ad un concetto caro a noi psicologi: quello di Resilienza.

L’intento di questo articolo non è riproporre pedanteschi trattati e concettualizzazioni su questo termine, quanto metterlo in relazione alla figura di questa donna; così, gli addetti ai lavori, potranno trarne qualche spunto e riflessione e i non addetti potranno leggerlo per conciliare il sonno.

La prima definizione della parola resilienza che possiamo trovare in un qualsiasi dizionario è “Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”. Qualcuno potrebbe chiedere, se il concetto è assimilabile a quello di resistenza (spesso i termini sono confusi).

I concetti sono simili ma non del tutto assimilabili; con resistenza si intende l’opposizione alle pressioni ambientali e quindi se vogliamo presenta un’accezione più passiva. Il termine resilienza implica qualcosa di più; non solo resistere alle perturbazioni ambientali ma saper riorganizzarsi positivamente dando vita a qualcosa di nuovo, maggiormente funzionale (MA. Costantino, M. Camuffo, 2009)

La letteratura ci chiarisce quali sono le condizioni ambientali e le caratteristiche personali che maggiormente sono legate allo sviluppo di resilienza; ovvero quali sono i cosiddetti “fattori protettivi” associati allo sviluppo di un funzionamento resiliente. Tra questi possiamo annoverare ad esempio, il sentimento di una base sicura interna, la stima di sé, il sentimento di efficacia personale (MA. Costantino, M. Camuffo, 2009) e il genere femminile (Dumont KA et al., 2007). Il lettore interessato potrà approfondire questo aspetto alla luce di questa piccola riflessione.

Mi piace definire Frida una donna resiliente, nonostante i messaggi ambigui, contrapposti che si celano, a volte neanche troppo velatamente nelle sue opere.

Voi definireste resiliente una giovane donna che nasce con la poliomielite? Che subisce un incidente quasi mortale che la costringe a letto e le mette a repentaglio la colonna vertebrale? che sposa un uomo che sa che la tradirà? che subisce tre aborti (sempre da quel uomo che l’ha tradita, persino con la sorella), ma che troviamo splendente sulla copertina di Vogue Mexico, che ha ispirato la produzione di due film (grazie ad uno, “Frida” del 2002, Salma Hayek ha vinto l’ oscar come migliore attrice), di dieci documentari, la costruzione di un museo e d’innumerevoli mostre e esposizioni? La domanda era inevitabilmente una piccola provocazione..

Questo turbinio di sofferenze, fisiche e mentali porta Frida ad un “sentire diverso” e quindi quell’ arte inafferrabile, sospesa, enigmatica. Il dolore è traslato in altro, in qualcosa che l’ha resa un’icona; è traslato nel tratto definito di colore, nella simbologia che sfiora un universo onirico scevro da teorie e intellettualizzazioni.

Una particolarità della sua ritrattistica è il suo sguardo; nonostante i numerosi patimenti fisici e mentali, infatti, la pittrice non abbassa mai lo sguardo, che è fermo, deciso, sempre rivolto in avanti verso lo spettatore che si approccia al quadro.

“Sapevo che il campo di battaglia della sofferenza si rifletteva nei miei occhi. Così, ho iniziato a guardare direttamente la lente senza sbattere le palpebre, senza sorridere, decisa a mostrare che sono una buona lottatrice fino alla fine”

Lei stessa, come si scrive in degli stralci autobiografici raccolti da Pino Cacucci (2014), è sempre rimasta attaccata alla vita, ha sempre lottato per cercare di sconfiggere la pelona (la morte) che in più occasioni ha cercato di portarsela via. Non è un caso che lo scrittore intitola il libro “VIVA LA VIDA”.

“La pioggia…..Sono nata nella pioggia. Sono cresciuta sotto la pioggia. Una pioggia fitta, sottile…una pioggia di lacrime. Una pioggia continua nell’anima e nel corpo (…).

Molte volte sono stata sigillata dentro bare di ferro e di gesso, ma…io resistevo, ascoltavo il mio respiro e maledicevo il lerciume del mio corpo devastato.”

Credo che si possa parlare proprio di resilienza; entrare nel dolore, viverlo, trasformare le perturbazioni in elementi di positivi.

Questo, può succedere in qualsiasi campo in cui scende in campo la sofferenza: periodi negativi, semplicemente periodi stressanti, dolore fisico e la malattia mentale.

Questo può essere un piccolo spunto che apre uno spiraglio di luce per i professionisti nei vari ambiti in cui c’è il dolore e la sofferenza: ad esempio promuovere gli interventi di natura preventiva mirati a implementare quelli che sono i cosiddetti fattori di protezione implicati in qualsiasi tipo di perturbazione psico-fisica (cfr. ambiente familiare, rete sociale, risorse personali).

Dott.ssa Chiara Moriglia

Psicologa presso Perugia

Per approfondire:

Costantino, M. A.,& Camuffo, M.(2009).Trasformazioni del concetto di resilienza e ricadute nella pratica. R&P,25,57-64.

DuMont, K.A.,Widom, C.S., & Czaja, S.J. (2207). Predictors of resilience in abused and negleted children grown-up: The role of individual and neighborhood characteristics. Child abuse & neglect,31 (3), 255-274.

Pino Cacucci, Viva la vida,2014, Feltrinelli editore.

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