Il segno d’amore. Di desideri e dintorni

Giovani adolescenti a confronto che dinanzi all’ultimo modello di Iphone appena acquistato da una di loro: “Guarda qui… finalmente! Sapessi quanto lo volevo”! L’altra, fra l’incredulità e l’invidia, le fa eco appena un istante dopo: “Noo! Spettacolare! Lo voglio anch’io”! Alla voce del verbo volere: “Essere intenzionato a ottenere qualcosa. Desiderare qualcosa”.  Ma questa voglia, questa bramosia neanche tanto velata, ha davvero a che fare con la dimensione del desiderio, o è tutta un’altra storia? E cosa s’intende con la parola desiderio? Prima di questo, mi corre l’obbligo di effettuare una constatazione necessaria.

L’era ipermoderna in cui siamo immersi, ci espone costantemente al convincimento (peraltro, errato) che la sempre maggiore accessibilità ai beni di consumo, non incontri nella sua imperterrita scalata verso l’alto, alcun impedimento o confine di sorta. Un’epoca come la nostra, in cui ogni “oggetto” è ormai sempre più facilmente fruibile e raggiungibile, finisce con l’impattare violentemente contro un dato via via crescente che ci coinvolge indistintamente tutti: l’esperienza del limite, è una condizione sempre meno presente nell’esistenza dell’uomo del terzo millennio. Se il concetto di “perdita” – simbolica o meno che sia – di un oggetto, normalmente, induce un momento di fermo in colui che la subisce (e che si appresta così ad attraversare il percorso tortuoso e doloroso dell’elaborazione luttuosa), è altrettanto vero che oggi l’incontro con la perdita, della cosa o dell’altro, finisce col cedere il passo alla sua tassativa, febbrile sostituzione, che si fa azione compulsiva e improrogabile. Il movimento psichico è quello della fuga in avanti, alla ricerca di un nuovo oggetto vicario che possegga o richiami anche solo alla lontana, un aspetto di quello appena andato perduto.

Ciò rende bene la cifra dell’illusione in cui l’uomo è miseramente destinato a cadere, un’illusione figlia del capitalismo mossa dal convincimento che nulla abbia il carattere della singolarità, dell’unicità, poiché tutto, al giorno d’oggi, si fa “pezzo” sostituibile. Il mero componente d’un insieme meccanizzato e privato della sua anima. Il risultato?

È un’entità assai distante dal desiderio e ben più vicina al godimento che travalica gli argini e che richiede di essere esaudito tempestivamente. Un godimento che ha il suono di una schiavitù, che non conosce attesa o frustrazione, ma che si pone come ego – centrato, autisticamente accartocciato al suo interno. Ripiegato su se stesso, è costantemente impegnato a confermare la totale mancanza di limite al suo pieno soddisfacimento. L’esistenza di un limite fondante è qui rifiutata, denegata. Eppure, un “desiderio” che faccia difetto del senso del limite, il “desiderio” spinto dall’ostinato convincimento che tutto può fare e tutto può essere, non può certo definirsi tale, finendo bensì con lo svuotarsi dell’essenza stessa da cui germoglia il vero desiderio: ed ecco che il primo si fa allora capriccio sterile, volontà erosa dall’insoddisfazione di fondo che la sorregge e che non gli concede tregua. È un albero inaridito. Un godimento senza desiderio.

A dettare il netto divario fra godimento effimero e desiderio autentico, ci pensa una norma tacitamente acquisita all’interno di ogni società che voglia dirsi civile: è la legge che permette all’uomo di confrontarsi col proprio limite e che gli ricorda che non può essere esattamente tutto ciò che vuole, né avere accesso indistinto a tutto quel che brama senza differenziazione alcuna. C’è un discrimine, un limen oltre il quale non è consentito passare. È la legge della castrazione, una legge che introduce l’uomo all’esperienza dell’impossibile, una legge non scritta che vieta all’umano di godere in-distintamente di tutto: è la legge che impedisce che l’incesto si compia, una legge che lo condanna aspramente e lo rende veto. Paradossalmente, sarà proprio questa proibizione fondante, a dar vita al desiderio pienamente detto, rendendolo esperienza possibile. Il desiderio è intanto una dimensione espansiva, generativa, che produce vita e che la vita la moltiplica: a dispetto del godimento – che parte da sé e in sé s’incancrenisce, producendo atmosfere mortifere – il desiderio autentico implica sempre la presenza dell’altro significativo, poiché per sua intima costituzione, il desiderio ha una natura relazionale. Il desiderio si fonda perciò sempre a partenza dall’altro e nell’altro ed il contatto con esso permette un allargamento degli orizzonti e del mondo che la persona vive. Da quell’istante, niente è più come prima.

A produrre desiderio, può essere idealmente qualunque tipo di incontro con l’altro, sia esso rappresentato da un viaggio, da un amore, da un libro, dalla scuola, da un amico o da un familiare. Ciascuno di questi incontri può trasformare e allargare i nostri orizzonti, poiché ci consente di trovare nuove parole per decodificare il mondo e dotarlo di quel senso che gli mancava. L’atto del desiderio possiede in sé una forza motrice creatrice, una spinta vitale che trascina verso l’esterno e che quasi “s’impossessa” dell’Io, fino a disorientarlo, fargli perdere il proprio baricentro, come ad esempio accade quando sperimentiamo sulla nostra pelle le dinamiche dell’innamoramento e ad esso cediamo, fino al punto che nessuno di noi “sceglie” di chi innamorarsi. Nel desiderio non c’è perciò alcun calcolo ragionato o imbrigliato dalle catene del giudizio morale (“qui è meglio di lì”), ma in esso regna piuttosto un aspetto d’instabilità e incertezza sottesa che lo distanzia e differenzia nettamente dalle rigide sequenze del godimento. Per Lacan, ogni forma di allontanamento o tradimento della “legge” del nostro, personale desiderio – verso il cui valore ciascuno di noi ha una grande responsabilità – sarebbe indicativo del complesso di sintomi psichici che la persona porta con sé e che in qualche modo parlano al suo posto. Ne è un esempio certamente infelice la trasparenza del corpo della giovane anoressica, che nel disperato tentativo di ricerca di parole e di sensi negli altri significativi attorno a lei – tutti strenuamente incentrati sul suo ostinato rifiuto del cibo – fa uso del suo soma per testare l’amore dell’altro. Un po’ come se quella sua chiusura alla vita sottintendesse una domanda (d’amore) che esige una risposta partecipata dell’altro. Una parola, che si fa allora segno d’amore. Nell’altro, nel desiderio dell’altro, è deposta la personale domanda di riconoscimento: se l’altro vi risponde, c’è una legittimazione all’esistenza. L’anoressica domanda: “Ho un qualche valore per te? Conto davvero qualcosa per te? Se io scomparissi, la tua esistenza sarebbe la stessa anche senza di me”? E l’anoressica, nel suo attendere una risposta dal “suo” – altro significativo (una madre, un padre), conferisce all’oggetto del suo desiderio d’amore il carattere dell’unicità, dell’esclusività: esso, in quanto oggetto sfuggente e non assimilabile, resiste ad ogni possibile baratto, facendosi soggettivamente in-sostituibile.

Per approfondire

Recalcati M. Ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano

Recalcati M. Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna. Raffaello Cortina Editore, Milano

Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti 

Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673

cl.marafioti@hotmail.com

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