La sindrome di Stendhal
La bellezza che stordisce

Amore e Psiche – Antonio Canova (1973)

“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.”

E’ a partire dalle sensazioni descritte da Marie-Henri Beyle (il cui pseudonimo è Stendhal) all’uscita dalla chiesa di Santa Croce a Firenze, che questa sindrome prende il suo nome.

La sindrome di Stendhal è stata identificata ed analizzata per la prima volta dalla psichiatra fiorentina Graziella Magherini, che ha descritto alcuni casi di turisti stranieri che, viaggiando soli e seguendo un itinerario artistico durante la loro visita a Firenze, presentavano una sintomatologia psicosomatica (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Somatizzazione e psicosomatica – Se solo si poesse pensare”)con tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni all’incontro con opere d’arte di straordinaria bellezza.

La psicoanalisi ha da sempre cercato di interpretare la creatività degli artisti, sottolineando come sia la manifestazione di aspetti regressivi e conflitti edipici profondi (per un approfondimento, si rimanda agli articoli “Il complesso di Edipo – All’alba della legge del padre” e “Legami di attaccamento – Oltre l’amore di un padre”) criptati simbolicamente come avviene nei sogni (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Sai interpretare i sogni? – Secondo me significa soldi”). La Magherini spiega la sindrome di Stendhal con una formula “matematica”:

Fruizione Artistica =
Esperienza estetica primaria madre-bambino + Perturbante + Opera scelta

 

Secondo questa lettura la bellezza per eccellenza è rappresentata dalla nostra esperienza con la mamma, il primo incontro del bambino con il suo volto, i suoi seni, la sua voce. (Esperienza estetica primaria madre-bambino)

A quest’esperienza estetica primaria va sommato il “perturbante”, ciò che di inquietante e spaventoso viene da noi associato a ciò che ci è familiare, secondo la lettura di Freud, ovvero una sensazione di inquietudine dinanzi ad un qualcosa di familiare ma allo stesso tempo non familiare (il classico sosia killer rappresentato in molti film). (Perturbante)

Tutto ciò viene proiettato su un particolare, un elemento che ci colpisce, in un’opera d’arte che eleggiamo come affascinante, magnetica per noi. (Opera scelta)

La somma di questi elementi dà luogo alla fruizione artistica, ovvero alla nostra singolarissima e soggettiva esperienza dell’arte, il nostro rapporto con l’opera d’arte. (Fruizione artistica)

Quando parliamo di arte è quindi inevitabile non parlare del bello.

Ma cosa è la bellezza?

La filosofia si è da sempre interrogata su questo tema: se nel “Simposio” di Platone la bellezza è associata all’eros, nel Medioevo la bellezza è rappresentata da Dio nella sua perfezione; se nel rinascimento bellezza è armonia e proporzione, per Kant è sentimento. Stendhal scrive che “la bellezza è una promessa di felicità”. La citazione sottolinea il carattere intuitivo e soggettivo della bellezza, come se non si potesse trovare un canone unico, ma ci si potesse avvicinare alla bellezza solo attraverso la propria soggettività, il proprio sentire.

In qualunque forma sia intesa, la bellezza ha un effetto di stordimento sull’essere umano, come se prevedesse una perdita di lucidità, un allontanamento dalla razionalità, qualità che sempre ci guida e che ci distingue dal mondo animale. Come se la bellezza sollecitasse una forma di sentire primitiva, indicibile, talvolta spaventosa.

Sì, perché a volte la bellezza fa paura.

Fa paura ottenere ciò per cui si è tanto lottato, ci si è lungamente e faticosamente adoperati.
 

Immaginiamo un ragazzo che deve sostenere l’ultimo colloquio di lavoro di una lunga selezione, per quella posizione all’estero che ha sempre sognato. Immaginiamo che non appena si siede di fronte al selezionatore, senta di non riuscire più a pensare, si immobilizza.

Immaginiamo una ragazza alle prese con il suo ultimo esame all’università prima della laurea. Immaginiamo che, davanti alla domanda del professore, abbia una crisi di panico e non riesce pertanto a sostenere l’esame.

Immaginiamo un uomo che ha sudato il suo salario una vita intera per avere i soldi sufficienti per poter acquistare la casa in cui i suoi genitori lo hanno cresciuto. Immaginiamo che il giorno dell’appuntamento con il notaio quest’uomo, sovrappensiero, causi un tamponamento e non possa presentarsi all’appuntamento.

Immaginiamo una donna che non si è mai voluta impegnare in una relazione seria, che frequenta una persona con cui sente finalmente a suo agio. Immaginiamo che alla prima occasione tradisca il partner, per una coazione a ripetere, o forse per il terrore di essere coinvolta emotivamente.
 

Le situazioni tipizzate sopra sono degli esempi dell’azione inconsapevole di alcuni meccanismi, detti sabotatori interni, che non ci permettono di vivere liberamente la nostra vita nei momenti cruciali. Che si attivano per sabotare il nostro agire attraverso la nostra stessa azione, distratta, coartata, talvolta iper-attivata. Sono dei meccanismi che mettono in scena un copione noto, già vissuto, tendenzialmente un copione che impedisce il cambiamento, l’evoluzione. Perchè il cambiamento, la bellezza, che riguarda tutte le situazioni di cui sopra, fa paura, ci obbliga a mettere in discussione la nostra identità ricercando un nuovo equilibrio (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “L’attacco di panico – Quei sani sabotatori interni”). E dal momento che non si può trovare un nuovo equilibrio senza prima perderlo, e che questa condizione di incertezza rende impossibile celare la vulnerabilità dell’essere umano, la vecchia realtà stantia viene tenacemente difesa, a tutti i costi, sabotando ogni minimo movimento verso il cambiamento, l’evoluzione, il futuro.

È per questo equilibrio che deve necessariamente essere perduto per essere ritrovato, che noi esseri umani siamo terrorizzati dal cambiamento. Che siamo terrorizzati dal raggiungimento del bello.

È per questi motivi che di fronte alla bellezza di un’opera d’arte, che ci mette violentemente e senza difese di fronte alla caducità e alla vulnerabilità dell’umano, che i più sensibili di noi hanno questi black-out, questi sintomi associati a quella che è stata definita la sindrome di Stendhal. Come se di fronte a quella verità, la nostra consapevolezza e la nostra razionalità non possano far altro che capitolare. Proprio come Psiche che, davanti alla bellezza di Amore, capitola perdendo le sue capacità di raziocinio, bruciando l’amato.

Dott.ssa Giulia Radi

Riceve su appuntamento a Perugia

(+39) 320 0185538

giulia.radi@hotmail.it

Per Approfondire

Apuleio, “Le metamorfosi”

Platone, “Fedro”

Magherini G., “La sindrome di Stendhal” (2003)

film “La sindrome di Standhal” (Dario Argento, 1996)

Gazzillo, F. “I sabotatori interni” (2012). Raffaello Cortina Editore

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