L’incontro impossibile. Annotazioni di psicoterapia con pazienti “difficili”

Adamo ed Eva trovano il corpo di Abele, 1826 –  William Blake. Tate Britain, London
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Da diversi anni seguo alcuni pazienti che Malcom Pines (1975) avrebbe definito “difficili”. Cosa si intende per paziente difficile?

Per descriverlo citerò le parole di uno di essi, un giovane di 27 anni affetto da disturbo borderline di personalità. Dopo alcuni anni di terapia questo paziente mi riportò il proprio disagio e la propria rabbia a seguito della proposta che gli avevo fatto di considerare una terapia farmacologica. Sentiva che volevo “sbarazzarmi” di lui, e per farlo ricorrevo al farmaco. Lui non poteva accettare di dipendere dal farmaco e sentiva che io lo stavo rifiutando perché troppo “grave”.

Dovetti impiegare molto tempo per analizzare il mio controtransfert durante quella seduta. Le comunicazioni del paziente mi giungevano paradossali. Più io me ne prendevo cura, più il paziente sembrava infuriarsi e rifiutare il mio tentativo di offrirgli una “reverie”, in grado di compensare il maternage inadeguato che aveva ricevuto. Più io cercavo di pensare il paziente, più questi si sentiva esposto e in pericolo.

Affrontai direttamente la questione nella seduta successiva. Gli domandai come mai si era arrabbiato tanto, considerando che io agivo per tutelarlo. Il paziente mi guardò e disse “più è grande il bene, maggiore è il male”. Il ragazzo mi descrisse, con grande perizia, le vicende delle proprie relazioni oggettuali. Più è forte il “caring” da parte dell’altro, maggiore è la minaccia che prova. Per due ordini di ragioni. L’incontro con un altro adeguato, supportivo, non abusante, che gli permetteva di esistere come mente separata, senza essere utilizzato per le finalità dell’altro, lo costringeva a confrontarsi con la qualità delle cure primarie che aveva ricevuto. Maggiore è la cura che riceve in terapia, maggiore è la rabbia che sente per essere stato privato di questa esperienza per tutta la sua giovane vita.

All’interno delle relazioni familiari il paziente poteva esistere solo come proiezione dell’altro, dei suoi desideri, quale deposito dell’agito delle emozioni disregolate e mai mentalizzate del genitore. La seconda ragione è che il “bene” che il paziente aveva conosciuto fino ad allora aveva avuto un prezzo altissimo.

La sua stessa sopravvivenza psichica dipendeva dal volere onnipotente del genitore. Un genitore che poteva essere benevolo o distruttivo senza alcun preavviso, impedendo al paziente di creare un modello coerente dell’altro dentro di sé e quindi di se stesso. Per il terapeuta l’incontro con il paziente borderline sembra essere un incontro impossibile. La stessa azione del prendersi cura diviene la maggiore paura del paziente, la più grande minaccia alla sua integrità fisica. Il terapeuta si trova investivo dall’identificazione proiettiva proveniente dal paziente, il quale vorrebbe, e allo stesso tempo teme mortalmente, che l’altro riveli il proprio volto sadico e lo maltratti, rassicurandolo sulla coerenza e ineluttabilità delle proprie precedenti esperienze relazionali. Secondo Pines i pazienti “difficili” erano  “autocentrati e preoccupati della loro dolorosa esistenza, al punto da escluderne gli altri”.

Tutto ciò che desideravano era l’attenzione dell’altro, a cui far contenere le proprie emozioni tossiche. “Non sembravano aprirsi ad una comunicazione significativa e si accorgevano che l’altro è il bersaglio per l’attacco o uno strumento di persecuzione.” (p.103). Pines considerava che questi pazienti fossero prevalentemente “borderline”. Egli notò che tali pazienti avevano una struttura dell’Io debole e utilizzavano il meccanismo di difesa della scissione e dell’identificazione proiettiva. “In accordo con Kohut, asserì che tali pazienti lottavano costantemente per mantenere un senso coerente dell’Sé e mancavano di risorse per mantenere l’equilibrio narcisistico”.

La consapevolezza di tali elementi ambivalenti presenti nella terapia di questi pazienti è fondamentale da parte del terapeuta, che dovrà essere “sufficientemente buono”, parafrasando ciò che Winnicott affermava circa le madri, le quali possiedono la capacità di accudire il bambino dosando opportunamente il livello della frustrazione che gli infliggono. Il terapeuta in seduta deve essere in grado di fornire l’holding necessario al paziente, riuscendo a farsi da parte all’interno dello spazio terapeutico per permettere al paziente di sperimentare l’illusione di creare lo spazio clinico e anche di distruggerlo a suo piacimento, compreso l’oggetto – terapeuta con cui egli è in relazione. Il terapeuta sufficientemente buono sarà in grado di tollerare l’ambivalenza affettiva che prova nei confronti del proprio paziente, riuscendo a tollerare l’odio che prova controtransferalmente, e far prevalere il sentimento di amore. Solo riuscendo a far convivere questi contrapposti sentimenti l’incontro con il paziente borderline può diventare possibile.

Per approfondire:

Funzione Gamma, rivista telematica scientifica dell’Università “Sapienza” di Roma, registrata presso il Tribunale Civile di Roma (n. 426 del 28/10/2004)– www.funzionegamma.it;

Winnicott D.W. (1954). Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione nel-l’ambito della situazione analitica. In Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott D.W. (1962). I fini del trattamento analitico. In Sviluppo affettivo ed ambiente. Armando, Roma, 1970.

Winnicott D.W. (1962). La teoria del rapporto infante genitore. In Sviluppo affettivo ed ambiente. Armando, Roma, 1970.

Dott.ssa Valeria Colasanti

Psicologa, Psicoterapeuta e Psico-Oncologa

Riceve su appuntamento a Roma

(+39) 3488197748 alfastudiopsicologia@gmail.com

difficile, paziente, psicoterapia

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