Sul tatuarsi. Dei confini di un corpo

Facendo un rapido salto all’indietro, è possibile scorgere nelle prime pratiche d’incisione del derma, significati ben precisi, come quello di fornire preziose informazioni sullo status sociale e sul gruppo di appartenenza della persona che le portava su di sé; ancora, quelle stesse tecniche di alterazione corporea, venivano impiegate come vere e proprie pratiche curative per la psiche ed il soma, (per un approfondimento, si rimanda all’articolo “Il tatuaggio – Storie incise sulla pelle”) attribuendo così a quei segni complessi, funzioni al limite del magico. Certamente, ad oggi, la diffusa moda del momento – che incita sempre più tristemente all’omologazione ed alla sterile quanto esibizionistica mostra di sé, spesso “traducibile” nell’ostentazione di un involucro iper curato e opportunamente “segnato” – ha come spersonalizzato e svuotato di senso l’antica arte del tatuaggio. 

Ma è davvero sempre così? Andando ben oltre i significati “sociali”, quali e quante possibili letture e sensi – più soggettivamente orientati – è possibile ancora e ciononostante scorgere nell’uso di questa pratica di trasformazione corporea, quando essa si fa massiccia? Fra le tante, eccone una. In qualche modo, potremmo intendere il tatuaggio come un insieme di tracce, vecchie e nuove, depositate sulla pelle.

Segni remoti invisibili e radicati nel derma, che raccontano esistenze sottese e di cui il corpo si fa testimone parlante. Linee, figure, simboli, che stanno al posto di qualcos’altro. Storie indicibili spesso intrise di un dolore dannatamente sordo, a cui il tatuato tenta di dar forma. Ed è così, che quei disegni d’inchiostro si fanno strumento d’elezione per il controllo, la gestione e quindi la “rappresentazione altra”, di contenuti psichici estremamente dolorosi e diversamente im-pensabili. Quando al corpo è affidato interamente l’arduo compito di dipingere su di sé la propria storia, ci imbattiamo inevitabilmente nell’evidenza che dinanzi a noi, vi sia una pelle lesa; una pelle, che ancor prima di farsi barriera fisica, è una pelle psichica, che nasce dall’incontro con l’altro. 

Il nostro derma rappresenta il punto di contatto ma, al contempo, l’aspetto differenziale col mondo esterno; è la linea invisibile di demarcazione e congiunzione fra il dentro e il fuori. Fra il Sé e l’Altro – da Sé. Una pelle che dapprima si fa “comune” fra madre ed infante e che, se adeguatamente contenuta, permette nel tempo la graduale ed autentica separazione del bambino dal suo caregiver. Ma quando quella pelle è stata lesa e resa incontenibile dall’inadeguatezza dell’altro – incapace di accogliere e restituire in altra forma affetti e pensieri per il bambino ancora indigesti – essa finirà col presentare su di sé, segni profondi e irreversibili: lesioni che la persona – che fa dell’uso del tatuaggio un proprio mantra – tenterà di riparare nella misura che le è più congeniale. E’ così che il corpo si fa veicolo di contenuti complessi diversamente inesprimibili e che sul soma trovano il canale preferenziale su cui far confluire un sufficiente (?) sfogo. 

Il tacito dubbio, nasce dalla considerazione per cui i modi abitualmente impiegati dalla persona amante del tatuaggio per poter in qualche modo sublimare le esperienze traumatiche che l’hanno attraversata, sono mezzi che tuttavia concedono un conforto ed un contenimento psichico, in verità riusciti solo a metà, poiché orientati verso una gestione ed un controllo del trauma che rimane estremamente “concreta”. Che resta cioè pur sempre espressione esterna di un disagio o di un conflitto psichico e che diviene perciò manifestazione isterico – forme dell’esperienza. L’idea delle lesioni del corpo e del derma, deve necessariamente ricomprendere tutte le sue declinazioni possibili, ivi incluse quella di una violazione, a più livelli, dei suoi confini. Una pelle perciò resa s – confinata per mano dell’altro, a cui la persona tenta di porre rimedio ri –  stabilendo ogni volta nuove linee di confine, a rimarcare una differenza netta fra un dentro e un fuori. In casi di violazione estrema di quei territori psico – fisici, la ricerca di linee d’inchiostro sempre nuove da tracciare per distinguere il dentro dal fuori, può farsi bisogno difensivamente rigido e sistematico. E’ come se la persona, nell’atto del tatuarsi, fosse mossa dalla convinzione di potersi auto – fondare ogni volta, negando così onnipotentemente la sua provenienza originaria dall’altro, sospinto com’ è al contempo dall’idea di dover rivendicare i propri confini corporei: l’appartenenza tutta sua del proprio corpo, di cui tenta di tracciare di volta in volta un confine che resta pur sempre esterno e concreto. Così, non potendo accedere ad altre (piene) forme di simbolizzazione, questa misura gli riesce solo parzialmente efficace, poiché essa parte e finisce sul corpo. Un vero e proprio acting – out. Una scarica tensionale che risponde alla duplice urgenza di dare espressione e “liberarsi” dall’esperienza emotiva traumatica buttandola fuori, ed al contempo di lasciare indecifrato il messaggio sotteso a quei segni visibili al mondo, che l’osservatore esterno continuerà a percepire come criptati e rispetto a cui potrà limitarsi a far solo ipotesi di senso.

Tutto ciò può chiaramente estendersi alle situazioni clinicamente rilevanti portate dai nostri pazienti, quando questa peculiare modalità espressiva, costituisce per loro, dentro e fuori il setting terapeutico, la possibilità di dare voce al discorso sotteso e in-decifrabile del corpo, il cui senso è quasi sempre da rintracciarsi nella storia di vita di chi, quei segni, li “indossa”. Al tatuaggio, il paziente, affida sintesi e compimento della rappresentazione del dolore per mezzo dell’immagine visiva. Sfruttando la potenza dell’immagine, il tatuaggio parrebbe condensare su di sé e pertanto, integrare, a suo modo, tutti i contenuti complessi legati all’esperienza traumatica, ivi incluse le componenti affettive (più disturbanti) connesse all’evento. Ed è così che il tatuaggio, unica forma di mentalizzazione possibile per la persona, si pone come tentativo estremamente arcaico e solo parzialmente riuscito di padroneggiare e “digerire” il trauma, sigillandolo nel simbolo. Il corpo è qui quella tela ideale che si presta ora e sempre per riscrivervi sopra una “nuova” storia. Una storia, il cui dolore, sul corpo, può essere inciso e raccontato. A sè e all’altro.  

Dott.ssa Carmela Lucia Marafioti

Riceve su appuntamento a Larino (CB)
(+39) 327 8526673

cl.marafioti@hotmail.com

Per approfondire

Anzieu D. L’epidermide nomade e la pelle psichica, Raffaello Cortina Editore, Milano,1992

Lemma A. Sotto la pelle, Raffaello Cortina Editore, Roma, 2011

Winnicott D.W., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma,1965

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Contattaci

Newsletter


Seguici


I contenuti presenti sul blog "ilsigarodifreud.com" dei quali sono autori i proprietari del sito non possono essere copiati,riprodotti,pubblicati o redistribuiti perché appartenenti agli autori stessi.  E’ vietata la copia e la riproduzione dei contenuti in qualsiasi modo o forma.  E’ vietata la pubblicazione e la redistribuzione dei contenuti non autorizzata espressamente dagli autori.


Copyright © 2010 - 2022 ilsigarodifreud.it by Giulia Radi. All rights reserved - Privacy Policy - Design by Cali Agency