Transfert e Controtransfert. Microcosmi di proiezioni

Sai … a volte penso che permetti ai tuoi pazienti di coinvolgerti davvero troppo.” “E’ l’unico modo che conosco per guarirli”

(Dal film “Prendimi l’anima”, 2002)

Cosa avviene in quella stanza? Ci sarà il lettino?  Sarà simpatico/a? Accogliente? E’ meglio scegliere un uomo o una donna?” Queste sono le domande, le perplessità, le fantasie più comuni che possono balenare nella mente dei futuri pazienti di fronte alla scelta del terapeuta o semplicemente prima della seduta iniziale, forse la prima di un lungo percorso.

Dall’altra parte della porta però vi è il terapeuta, una persona, anch’essa con la sua valigia, appena preparata, di pensieri e aspettative.  (Per approfondire si rimanda all’articolo “L’ultima seduta-la fine del rapporto terapeutico” della rivista).

In un’intervista Giampiero Arciero sostiene che l’efficacia di una psicoterapia dipende grandemente dai cosiddetti fattori comuni o aspecifici. Tra questi annovera l’alleanza terapeutica, cioè alla base del risultato positivo di una psicoterapia non c’è tanto la cornice teorica di riferimento del terapeuta (1%), quanto la relazione tra terapeuta e paziente. La relazione dunque è considerata la chiave di volta del setting terapeutico. 

I concetti di transfert e controtransfert  sono inseriti in questo legame relazionale, e le tinte di colore possono essere piuttosto vaste, oserei dire quasi sconfinate. Mi piace definire la seduta psicoterapica come un caleidoscopio ridondante di emozioni che si muovono, rimbalzano, da una parte all’altra; il setting, se strutturato bene, le riporta nel loro giusto angolo.

Ma cosa sono il transfert e il controtransfert nella pratica clinica?

Sono due concettualizzazioni di matrice prettamente psicodinamica che hanno visto numerose modifiche proprio in seno al loro nucleo teorico di base.  

Con il termine transfert si fa riferimento a tutte le relazioni infantili che si ripropongono nella figura del terapeuta. La psicologia del Sé lo chiama transfert da oggetto Sé; ovvero il Sé deficitario del paziente tende a completarsi con quello del terapeuta. In tutte le concezioni del transfert, rimane centrale l’esperienza che il paziente ha del terapeuta, esperienza in cui si intrecciano vecchie e nuove relazioni. In tutto questo vi è anche la soggettività del terapeuta; l’altro microcosmo portatore di sentimenti e emozioni.

Si definisce controtransfert tutto l’insieme delle reazioni emotive del terapeuta verso il paziente.  Queste possono essere determinate sia da relazioni del suo passato portate in auge nella relazione con il paziente, altre indotte dal comportamento del paziente stesso.  Intenzionalmente, come accennavo in precedenza, propongo solo un’infarinatura teorica chiedendo venia ai maestri pasticceri e rimandando i cuochi apprendisti ad ulteriori letture e approfondimenti.

Un giorno una persona mi chiese “ma questo cavolo di transfert è positivo?” Dopo un sorriso risposi “dipende…”.

Mi piace pensare al transfert e al controtransfert come delle onde enormi, che fanno gola a tutti i surfisti; ma solo i più abili e quelli che hanno le tavole giuste sono in grado di affrontarle e quindi di cavalcarle. In altri termini questi due processi possono essere intesi come degli elementi pericolosissimi ma allo stesso tempo preziosissimi per il terapeuta; almeno risultano così per il giovane Jung nel film “Prendimi l’anima” da cui la citazione iniziale.

Il punto cruciale, dunque, risiede proprio nella relazione stessa; una relazione complicata assimilabile forse ad una matassa piena di nodi da sciogliere. Questo non può essere però, lasciato al caso, ogni piccolo nodo richiede un particolare momento e modalità per essere sciolto; altrimenti il rischio che si corre è quello di non riuscire a districarsi in questo complicato nido di intrecci.

Credo che in ogni relazione, ci sia un legame e uno scambio di emozioni; credo allo stesso modo che la relazione terapeutica sia una relazione peculiare, unica nel suo genere dove esiste appunto questo macrocosmo dato dal setting e i due microcosmi che si incontrano. Non penso sia paragonabile a qualsiasi altra relazione medico-paziente.

Su questo punto lascio un ulteriore spazio di riflessione ai lettori. Un autore a cui sono cari questi concetti è Irvin Yalom. L’autore tocca questi elementi nei racconti dei suoi casi clinici contenuti nel libro “Il senso della vita”; lo psichiatra offre un vissuto relazionale autentico con i suoi pazienti affrontando i risvolti, talvolta onerosi, ma indubbiamente rilevanti per la risoluzione del caso, del transfert e controtransfert.

Il caso di Irene ad esempio, contenuto nel capitolo intitolato “Sette lezioni avanzate sulla terapia del lutto”, è un telaio relazionale tessuto in lunghissimi 4 anni. Anni in cui vengono affrontate le difficoltà relazionali e emotive di Irene legate alla morte del marito, anni in cui il loro legame viene ricamato di volta in volta in maniera diversa aggiungendo fili di nuovi colori e di nuovi materiali. Il punto è proprio questo; le difficoltà della paziente e i punti chiave del lavoro sono colti proprio a partire dalla relazione tra lo psichiatra e Irene. Yalom parla proprio di lavoro sul “qui e ora”, di lavoro sulle reazioni emotive reciproche, di lavoro sul transfert della paziente che tende ad avere delle importanti proiezioni sul terapeuta legate indissolubilmente al defunto marito.  Yalom non schiva questa onda emotiva ma da bravo surfista dell’anima la cavalca e l’esito ha una portata positiva. Merito del surfista o di una bella tavola nuova? Forse di entrambi. Ecco alcuni snodi principali del caso. “Rimase seduta in silenzio per un po’, poi chiese “E lei pensa a me tra una seduta e l’altra? (..) Per quanto i terapeuti cerchino di essere franchi, di stabilire un’intimità, rimane sempre un vuoto incolmabile, una fondamentale disuguaglianza tra loro e i pazienti (..) Ma credevo che nessuna risposta appropriata da parte mia le avrebbe dato quello che voleva. Voleva da me altri pensieri-pensieri d’amore, d’ammirazione, relativi al sesso o, forse, all’innamoramento. Sì, innamoramentoera la parola giusta”.  Queste sono invece le reciproche considerazioni sui 4 anni di lavoro terapeutico  “Mi dica, dalla sua prospettiva: qual è stato il vero centro, il nucleo del nostro lavoro? Irene: L’impegno, lei era sempre lì, protendeva verso di me, cercava di avvicinarsi(..) Avevo bisogno di una sola cosa: che lei stesse con me e avesse voglia di esporsi alla roba letale che irradiavo (..). Di sicuro aveva ragione riguardo al “coinvolgimento” concetto chiave nella mia psicoterapia. Avevo deciso fin dall’inizio che il coinvolgimento era la cosa più efficace che potessi offrire a Irene (..) Significava piuttosto che mi sarei avvicinato a lei il più possibile, che mi sarei concentrato sullo “spazio tra di noi”, sul “qui-e-ora” ovvero sulla relazione tra lei e me qui (nello studio) e ora (in quel preciso momento)”.

Concludo con delle domande a cui provo a dare delle risposte, lasciandovi un po’ di sano dubbio socratico, sacro per gli addetti ai lavori. E’ giusto quindi immergersi a capofitto nella fitta trama di questa relazione particolare? Fino a che punto? Io rispondo: Fino a quando si posseggono i fili giusti, di appropriati colori e materiali oppure, cambiando metafora, l’onda è all’altezza giusta e la nostra tavolozza è di ultima generazione.

Dott.ssa Chiara Moriglia

(+39) 346 7294890

morigliachiara@gmail.com

Per approfondire:

http://180gradi.org/2015/10/11/cosa-rende-una-psicoterapia-efficace/) Intervista a Giampiero Arciero, Direttore della scuola di Psicoterapia IPRA.

Glen O. Gabbard Introduzione alla psicoterapia psicodinamica, Ed Cortina Raffaello.

Antonio A. Semi, Tecnica del colloquio, Ed Cortina Raffaello.

Irvin D. Yalom, Il senso della vita, Ed Neri Pozza.

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