Lo sviluppo della Mentalizzazione. Comprendere la Mente

Nighthawks – Edward Hopper

Molto spesso mi è capitato di vedere questa scena: una mamma che chiacchiera con le amiche, mentre il bimbo corre e gioca. Ad un certo punto però il bambino inciampa e cade per terra. In realtà non si è fatto nulla, ma la sua prima reazione è quella di voltarsi e guardare la mamma, la quale prontamente corre verso di lui per assicurarsi che tutto va bene. Solo allora quando gli occhi dei due si incontrano, e il bambino scorge la preoccupazione negli occhi della mamma, scoppia in lacrime. Quasi come se tra di loro fosse avvenuta una conversazione in pochi istanti che nessun altro ha potuto ascoltare, dove il bambino le ha chiesto:” Mamma mi devo preoccupare?” e la risposta implicita è stata “Sì”. Nessuno di noi nasce già con la capacità di regolare le proprie emozioni: questa abilità evolve gradualmente attraverso la comprensione e le risposte del caregiver ai segnali di cambiamento dello stato del neonato. La capacità della madre di pensare alla mente del proprio figlio mind-mindeness sembra associata allo sviluppo di una buona mentalizzazione del bambino.

La mentalizzazione è una forma (principalmente preconscia) di attività mentale immaginativa, che ci consente di cogliere ed interpretare il comportamento in termini di stati mentali, come bisogni, desideri, emozioni, credenze, obiettivi, intenzioni e motivazioni. L’immaginazione è necessaria per farsi un idea di ciò che gli altri potrebbero pensare o provare, dato che su ciò non vi è certezza. Questa capacità si è sviluppata nel corso dell’evoluzione affinché gli uomini potessero interpretare efficacemente e velocemente il pensiero degli altri in diverse situazioni, da quelle di pericolo a quelle di cooperazione. 

Un’importante scoperta neurofisiologica avvenuta negli anni ’90 è stata quella dei “neuroni specchio”, una classe di neuroni che si attivano quando un individuo compie un’azione, ma anche quando la vede compiere da qualcun altro. La cosa sorprendente è che questi neuroni vengono attivati anche in seguito all’osservazione negli altri di alcune emozioni primarie, quali il disgusto e il dolore. Premesso che tutti possediamo questo tipo di neuroni e se è vero che questi sono legati al processo di mentalizzazione, perché non tutti padroneggiamo l’abilità di capire gli stati mentali altrui allo stesso modo? Questo dipende molto dal tipo di attaccamento sviluppato nei confronti delle figure genitoriali nelle prime relazioni di cura. Genitori che hanno una buona capacità di mentalizzare potrebbero favorire lo sviluppo della mentalizzazione nei loro figli.
Questo processo è così naturale che sarebbe più corretto dire che un attaccamento sicuro del bambino nei confronti del genitore (Per un approfondimento si rimanda all’articolo “Legame di attaccamento- l’importanza di legarsi” nella rivista del mese di marzo 2015), facilita il normale evolversi della mentalizzazione, piuttosto che influire attivamente su di essa. A partire dal primo mese di vita, il neonato comincia a comprendere di essere un agente sociale, capisce che il suo atteggiamento influisce sui comportamenti del genitore. Durante la seconda metà del primo anno di vita il bambino inizia a cogliere le relazioni causali tra le azioni, chi le compie e l’ambiente. Ogni azione quindi è motivata da un’intenzione, ma il piccolo non ha ancora un’idea dello stato mentale di chi la compie. Questa capacità viene raggiunta solo a partire dal secondo anno di vita: il bambino comincia a capire che lui stesso e gli altri sono sì agenti intenzionali, ma le azioni sono causate da stati mentali sottostanti, come i desideri, e che queste azioni possono produrre reazioni emotive. La cosa importante è che in questa fase il bambino comincia anche ad acquisire un linguaggio per descrivere i propri stati interni e la capacità di ragionare in maniera non egocentrica sui sentimenti e desideri degli altri. Verso i tre anni i bambini padroneggiano una più complessa abilità: sono in grado di comprendere che le azioni di una persona sono guidate non soltanto dai suoi desideri, ma anche dalle sue credenze, e che queste possono essere sia vere che false. In un primo momento vengono prese in considerazione solo le credenze vere, cioè quelle che rispecchiano l’effettivo stato di cose nella realtà. Solo in seguito giunge la comprensione della falsa credenza, ovvero comprendere che le azioni possono essere determinate da credenze erronee. Un compito simpatico che viene fatto al bambino per vedere se ha raggiunto la capacità della falsa credenza è quello di Sally ed Anne (figura in basso): Sally ed Anne sono due bambine, Sally ha un cestino ed Anne una scatola. Sally prende una biglia e la mette nel suo cestino, poi esce a fare una passeggiata. Mentre Sally è fuori Anne prende la biglia dal cestino e la mette nella sua scatola. Quando Sally ritorna dove cercherà la biglia? Il bambino che ha visto tutta la scenetta e che ancora non ha raggiunto la consapevolezza della falsa credenza risponderà secondo la sua credenza ovvero nella scatola e non secondo la credenza erronea di Sally, cioè nel cestino. Dai sei anni in poi il bambino ha ormai raggiunto la piena consapevolezza delle emozioni desideri e credenze dell’altro, ha anche la consapevolezza che le persone possono avere emozioni contrastanti.
Vi sono casi in cui vi è un mancato sviluppo del processo di mentalizzazione. Per esempio nel caso dell’autismo: i bambini autistici presentano una generale mancanza di interesse sociale, ridotti livelli di impegno sociale, di scambi sociocomunicativi e scarsi contatti oculari con l’altro. In questi casi il normale sviluppo della mentalizzazione non avviene. Fallimenti della mentalizzazione compaiono anche negli adolescenti o giovani adulti affetti da schizofrenia per l’attribuzione di intenzioni inappropriate alle altre persone (ipermentalizzazione), nel disturbo borderline di personalità (per cui si rimanda all’articolo Disturbo borderline di personalità-l’arte del funambolismo nella rivista del mese di aprile 2015) in cui è presente una scarsa mentalizzazione, e altri disturbi. Concludo sostenendo che imparare a comprendere questo linguaggio della mente è un processo fondamentale non solo in psicologia, ma per chiunque viva relazioni umane. 

                                                                                       Dott. Andrea Rossetti

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andrearossetti217@gmail.com

Per approfondire:

Attili G., (2001) Ansia da separazione e misura dell’attaccamento normale e patologico. Unicopoli Ed. Milano

Fonagy P., Target M., (2005) Psicopatologia evolutiva. Le teorie psicoanalitiche. Raffaello Cortina Ed. Milano

Midgley N., Vrouva I., (2014) La mentalizzazione nel ciclo di vita. Raffaello Cortina Ed. Milano

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